Effetti della separazione fra coniugi

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Scioglimento della comunione legale o di quella convenzionale

In conformità all'articolo 191 del codice civile, la separazione legale (sia consensuale che giudiziale) dei coniugi determina lo scioglimento, a seconda delle circostanze, della comunione legale dei beni e della comunione convenzionale. Tale effetto si verifica automaticamente nel momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nel caso della separazione giudiziale, o dalla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione, nel caso della separazione consensuale.

Di conseguenza, nel caso in cui non abbiano provveduto a regolare i reciproci rapporti patrimoniali durante la separazione, la comunione legale dei loro beni si trasforma automaticamente in una comunione ordinaria, disciplinata dagli articoli 1100 e seguenti del codice civile.

Al contrario, la separazione personale dei coniugi non comporta la cessazione né del fondo patrimoniale eventualmente costituito a favore della famiglia, né della partecipazione del coniuge all'impresa familiare.

Perdita diritti successori

Per quanto riguarda gli aspetti successori, come già visto nei paragrafi precedenti, è necessario distinguere tra separazione senza addebito (che non modifica il diritto alla successione del coniuge superstite) e separazione con addebito (che invece estingue i diritti successori pieni del coniuge cui è addebitata la separazione, salvo il diritto a un assegno vitalizio nelle condizioni previste dall'articolo 548, secondo comma, del codice civile). Il coniuge separato al quale non sia stata addebitata la separazione mantiene gli stessi diritti del coniuge non separato (art. 548 c.c.). In caso di addebito il coniuge perde la qualifica di erede legittimario e lo speciale diritto di abitazione della casa coniugale compreso l’uso dei mobili che la arredano.               

Il coniuge separato ha diritto alla pensione di reversibilità e alle indennità previste a favore del coniuge superstite, oltre alle indennità di cui agli articoli 2118 e 2120 del codice civile.                                   

Assegno di mantenimento e obbligo alimentare

L'articolo 156, primo comma, del codice civile autorizza il giudice a stabilire a favore del coniuge a cui non sia addebitata la separazione un contributo al mantenimento a carico dell'altro coniuge. La nozione di mantenimento è più ampia rispetto a quella di alimenti (articolo 156, terzo comma, e articoli 433 e seguenti del codice civile), che spettano anche al coniuge a cui la separazione sia stata addebitata, qualora versi in stato di bisogno. L'obbligo di mantenimento del coniuge separato sostituisce l'obbligo di contribuzione a cui il coniuge è soggetto durante la convivenza matrimoniale (articolo 143, terzo comma, del codice civile), il quale cessa in seguito alla separazione.

In contrasto con gli scenari di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (come discusso successivamente), nella separazione personale, gli adeguamenti dei redditi utilizzati per calcolare l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, secondo quanto previsto dall'articolo 156 del codice civile, si riferiscono a quelli necessari per mantenere lo standard di vita goduto durante il matrimonio. Questo si deve alla persistente attualità del dovere di assistenza materiale tra i coniugi, nonostante la separazione, poiché il legame coniugale non cessa completamente; si verifica solo una sospensione dei doveri personali, come la convivenza, la fedeltà e la collaborazione, e un adeguamento degli aspetti patrimoniali alla nuova situazione.

L'ammontare dell'assegno dipende da diversi fattori, tra cui le condizioni individuali dei coniugi, il contributo personale ed economico alla vita di coppia, il patrimonio familiare e individuale, nonché la durata del matrimonio. Un altro aspetto rilevante per la determinazione dello standard di vita matrimoniale riguarda le reali opportunità lavorative del richiedente, insieme ai beni patrimoniali e a ogni attività economicamente valutabile, anche se non generatrice di reddito immediato.

L'assegno di mantenimento è rappresentato da una prestazione periodica di carattere pecuniario, ed è espressione della solidarietà coniugale, con funzione assistenziale e non già sanzionatoria. Pertanto, la corresponsione dell’assegno è suscettibile di cessazione o interruzione, nel caso in cui il coniuge beneficiario intraprenda una convivenza stabile e continuativa con una terza persona, in quanto si può presumere che i patrimoni dei due conviventi siano messi a diposizione della vita di coppia, facendo venir meno la necessità del contributo economico del coniuge separato (Cass. civ., I, n. 16982 del 2018).

Ciò non esclude, peraltro, che il coniuge beneficiario possa provare che la nuova convivenza non apporta un miglioramento alle proprie condizioni economiche e che, di conseguenza, permanga la necessità di percepire l’assegno di mantenimento. Grava quindi sul coniuge obbligato al mantenimento l’onere di provare che l’altro abbia instaurato una convivenza more uxorio avente i caratteri di stabilità, continuatività ed effettiva progettualità di vita richiesti a tal fine.

Affidamento e mantenimento dei figli  

L'articolo 337-ter del Codice Civile disciplina l'affidamento e il mantenimento dei figli minori, inclusi quelli nati fuori dal matrimonio, nei casi di separazione, cessazione degli effetti civili del matrimonio o scioglimento del matrimonio. Questa norma si applica sia alle separazioni consensuali che a quelle giudiziali, con modalità diverse a seconda della situazione.

Nel caso di separazione consensuale, i genitori raggiungono un accordo sugli aspetti relativi all'affidamento dei figli, alla loro educazione e al loro mantenimento. Il giudice verifica che tali accordi siano conformi al superiore interesse del minore e li omologa, ratificandoli come vincolanti. L'accordo può prevedere il mantenimento diretto, ovvero il contributo di ciascun genitore proporzionale al proprio reddito per coprire le spese di cura, educazione e istruzione, o, se necessario, un assegno periodico.

Nella separazione giudiziale, quando i genitori non riescono a trovare un accordo, il giudice decide autonomamente su:

  • L'affidamento, che può essere condiviso o esclusivo.

  • I tempi e le modalità di frequentazione tra i figli e ciascun genitore.

  • La misura del contributo economico per il mantenimento, eventualmente disponendo un assegno perequativo se il mantenimento diretto non rispetta il principio di proporzionalità.

Il giudice esercita un’ampia discrezionalità, basandosi sui criteri previsti dall’articolo 337-ter, per garantire il benessere dei figli e una ripartizione equa degli obblighi tra i genitori.

Principi generali

L’articolo 337-ter garantisce al figlio il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambi, e preservando relazioni significative con nonni e altri parenti di entrambi i rami familiari.

Il mantenimento può essere in forma diretta o tramite assegno periodico. L’ammontare di quest’ultimo viene determinato dal giudice tenendo conto di diversi fattori, tra cui:

  • Le esigenze attuali del figlio.

  • Il tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori.

  • I tempi di permanenza del figlio con ciascun genitore.

  • Le risorse economiche di entrambi i genitori.

  • Il valore economico delle attività di cura e domestiche.

In caso di convivenza stabile e continuativa del genitore beneficiario con un terzo, l’assegno di mantenimento può essere sospeso o cessare del tutto, salvo prova che la nuova convivenza non migliori significativamente le condizioni economiche del genitore beneficiario.

In sintesi, l’articolo 337-ter regola in modo flessibile e dettagliato sia le separazioni consensuali, dove prevalgono gli accordi tra i genitori, sia le separazioni giudiziali, in cui il giudice stabilisce le modalità più adatte per garantire il benessere del figlio.                                                                                                                        

Assegnazione della casa familiare in caso di separazione e divorzio                     

È importante sottolineare che le regole che governano l'assegnazione della casa coniugale sono le stesse, indipendentemente che si tratti di una separazione o di un divorzio. L'assegnazione dell'abitazione familiare, benché con implicazioni anche di natura economica, è principalmente orientata a garantire la tutela esclusiva dei figli. Pertanto, tale assegnazione è prevista solamente in caso di presenza di figli minori o maggiorenni non ancora economicamente indipendenti. L’obiettivo è quello di consentire ai figli di mantenere l'uso dell'ambiente in cui sono cresciuti fino al momento della crisi familiare.

Il provvedimento di assegnazione perdura finché i figli vi abitano o diventano economicamente autosufficienti, indipendentemente dalla loro maggiore età. 

L'assegnazione della casa familiare è tenuta in considerazione ai fini della determinazione del contributo al mantenimento del coniuge e dei figli.

Pertanto, il principale criterio per determinare a quale dei coniugi sia assegnata la casa familiare è legato all'affidamento dei figli. La normativa di riferimento non fornisce indicazioni specifiche in merito all'assegnazione della casa familiare in assenza di figli. Nonostante il silenzio della norma, esistono casi, seppur rari, in cui la casa familiare potrebbe essere assegnata a un coniuge senza figli e che non sia proprietario dell'immobile né abbia diritti reali su di esso. Tali situazioni possono verificarsi quando il coniuge presenta gravi patologie o infermità tali da giustificare l'assegnazione della casa familiare.

Nel caso di affidamento esclusivo, la tendenza è assegnare la casa familiare al coniuge a cui è affidata esclusivamente la custodia dei figli. Nel caso di affidamento congiunto, invece, il giudice deve considerare il diritto di proprietà e altri diritti che ciascun coniuge ha sull'immobile.

Solitamente, in tali circostanze, la prassi giurisprudenziale propende per l'assegnazione della casa familiare al coniuge presso il quale i figli vivono prevalentemente.

Tra le situazioni in cui l’assegnazione viene meno troviamo:

  • L'assegnatario non abita più nella casa familiare oppure cessi di abitare stabilmente nella casa familiare;

  • L'assegnatario intraprende una nuova convivenza more uxorio;

  • L'assegnatario contrae un nuovo matrimonio;                                                         

In presenza originaria o sopravvenuta di una di tali condizioni potrà essere richiesto il rilascio dell’immobile, da parte dei coniugi o degli eventuali terzi, mediante azione di accertamento finalizzata a ottenere la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pagamento della relativa indennità di occupazione illegittima.

Nel caso in cui non ci sia un accordo diverso, il destinatario della casa sarà responsabile di pagare sia le spese condominiali che le utenze dell'immobile. Tuttavia, se il destinatario è anche un co-proprietario dell'immobile, dividerà le spese straordinarie a metà con l'altro co-proprietario.

Per quanto riguarda le abitazioni in affitto, di solito è il coniuge che continua a risiedere nell'immobile a provvedere al pagamento del canone. In questo caso, diventa il nuovo intestatario del contratto di locazione, purché il contratto sia stato originariamente stipulato esclusivamente a nome dell'ex coniuge.

Tuttavia, questa disposizione può essere soggetta a modifiche se l'assegnatario si trova nell'impossibilità di sostenere completamente i costi dell'affitto. Nella valutazione complessiva del mantenimento della prole e del coniuge più vulnerabile, potrebbe essere considerato il contributo dell'assegnatario a una parte o all'intero importo dell'affitto. La stessa considerazione si applica nel caso di un mutuo, dove la valutazione globale delle risorse finanziarie può comportare la partecipazione dell'assegnatario al pagamento di una quota dell'ammontare totale del mutuo o, eventualmente, dell'intero importo.

È atipico che il Tribunale decida di assegnare l'immobile al coniuge non proprietario se la coppia non ha avuto figli. Tuttavia, questa norma non si applica in caso di separazione consensuale, in cui la coppia può concordare l'assegnazione a favore del coniuge non proprietario.

Spesso, la concessione della casa coniugale avviene quando una delle parti non dispone delle risorse sufficienti per garantirsi una sistemazione adeguata. In questi casi, l'assegnazione assume un valore economico che incide sulla determinazione di un eventuale assegno di mantenimento.

Qualora l'immobile risulti di proprietà congiunta dei coniugi, è imprescindibile trovare la soluzione più appropriata, come ad esempio optare per la vendita dell'immobile e poi ripartire il ricavato in base alle quote di proprietà o assegnarlo al coniuge con minori risorse economiche.

Nel contesto della divisione di una casa familiare durante la separazione dei coniugi, emergono due posizioni contrastanti all'interno della Suprema Corte in merito alla necessità di sottrarre o meno dal valore di mercato dell'immobile la diminuzione causata dal vincolo di destinazione derivante dall'assegnazione esclusiva.

Le Sezioni Unite (n. 18641 del 2022) hanno analizzato i principi generali della divisione giudiziale nel Codice Civile, evidenziando le interferenze di tale disciplina con le decisioni di assegnazione della casa coniugale e dell'affidamento dei figli minorenni o non autosufficienti. Nell'ipotesi di divisione di un bene immobile con diritto di assegnazione della casa coniugale, l'operazione può terminare con gli esiti tipici della divisione della comunione. Se il bene è indivisibile, il giudice è tenuto a assegnarlo unitariamente a uno dei coniugi, considerando eventuali vincoli che possono influire negativamente sul suo valore di mercato.

Tuttavia, il diritto di godimento derivante dall'assegnazione della casa familiare non è considerato un vincolo che incide negativamente sul suo valore di mercato. La Suprema Corte ha definito questo vincolo come un diritto di godimento atipico, orientato a tutelare l'interesse prioritario dei figli alla continuità della vita familiare, senza influire sulla determinazione del conguaglio dovuto all'altro coniuge proprietario dell'immobile. Questo diritto di godimento può essere estinto quando cessano i suoi presupposti giustificativi o quando si verificano circostanze legittimanti per una revoca giudiziale, come previsto dall'art. 337 sexies c.c.

L'art. 337 sexies c.c. dispone che il provvedimento di assegnazione e di revoca siano trascrivibili e opponibili a terzi secondo l'art. 2643 c.c.. Tale riferimento all'art. 2643 c.c., che indica gli atti da trascrivere per fini pubblicitari, si estende anche all'art. 2644 c.c., che ne regola gli effetti. Secondo quest'ultimo articolo, anche se trascritto, l'atto non ha effetto nei confronti dei terzi che hanno acquisito un diritto sull'immobile in virtù di un atto trascritto o iscritto prima della trascrizione del provvedimento di assegnazione.

L’articolo 6 della legge n. 898 del 1970, nota come Legge sul divorzio, stabilisce che l’assegnazione della casa coniugale al coniuge assegnatario, se trascritta, può essere opposta al terzo acquirente dell’immobile. Questa regola richiama l’articolo 1599 del Codice Civile, che disciplina l’opponibilità ai terzi dei contratti di locazione trascritti. In altre parole, la trascrizione dell’assegnazione protegge il diritto di abitazione del coniuge assegnatario, impedendo che l’acquisto da parte di un terzo possa pregiudicare tale diritto.

Tuttavia, anche in assenza di trascrizione, l’assegnazione è opponibile ai terzi per un periodo massimo di nove anni, come precisato dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2002. Questo principio si basa sulla certezza giuridica derivante dalla "data certa" del provvedimento giudiziale. Oltre i nove anni, però, la trascrizione diventa indispensabile per garantire l’opponibilità dell’assegnazione ai terzi acquirenti, tenendo conto della necessità di tutelare gli interessi patrimoniali di questi ultimi.

Nel caso in cui la casa familiare sia in locazione e venga assegnata al coniuge che non era formalmente il conduttore del contratto, quest’ultimo subentra nella locazione come nuovo conduttore. Questo consente al coniuge assegnatario di mantenere il diritto di abitazione anche qualora l’immobile venga venduto a un terzo.

Le Sezioni Unite hanno inoltre chiarito che il richiamo all’articolo 1599 del Codice Civile non si limita ai rapporti di locazione, ma si estende anche ai casi in cui il coniuge non assegnatario sia titolare di un diritto reale sull’immobile. In tali situazioni, l’assegnazione della casa coniugale, purché dotata di una data certa, rimane opponibile ai terzi acquirenti per i primi nove anni.

In conclusione, la trascrizione del provvedimento di assegnazione rappresenta un elemento cruciale per garantire una tutela duratura del coniuge assegnatario, specialmente dopo il periodo di nove anni previsto dalla giurisprudenza. In sua assenza, il diritto di abitazione rischia di essere compromesso, soprattutto nei confronti dei terzi acquirenti.

Casi particolari di assegnazione della casa familiare                           

In alcuni casi particolari, l’assegnazione della casa familiare coinvolge situazioni in cui l’immobile, precedentemente abitato dalla famiglia, non appartiene al coniuge assegnatario né è regolato da un contratto di locazione. Questo accade, ad esempio, quando la casa è stata concessa in comodato gratuito dal genitore di uno dei coniugi. In questi casi, le problematiche legate al comodato e alla successiva assegnazione della casa al coniuge affidatario dei figli minori o convivente con un figlio maggiorenne non autosufficiente sono state analizzate dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 20448 del 2014).

La questione si concentra sull’inquadramento del contratto di comodato in una delle due tipologie previste dal Codice Civile:

  1. Comodato precario (art. 1810 c.c.), in cui il proprietario può richiedere la restituzione dell’immobile in qualsiasi momento, senza necessità di giustificazione.

  2. Comodato con destinazione d’uso specifica (art. 1809 c.c.), che lega il godimento dell’immobile a uno scopo preciso, come l’uso come casa familiare. In questo caso, il proprietario può chiedere la restituzione solo in caso di urgente e imprevisto bisogno o qualora venga meno la destinazione stabilita.

Se il comodato è stato concesso senza una scadenza specifica, ma con la destinazione d’uso come casa familiare, il coniuge assegnatario che si oppone alla richiesta di rilascio dell’immobile da parte del proprietario deve dimostrare che l’intenzione delle parti al momento della stipula del comodato era proprio quella di garantire una stabile abitazione al nucleo familiare. Questa dimostrazione può risultare particolarmente complessa se il comodato è stato stipulato prima della costituzione del nucleo familiare.

Le Sezioni Unite hanno sottolineato che, se il comodato riguarda un immobile destinato a casa familiare, la natura stessa di tale concessione è incompatibile con la provvisorietà tipica del comodato precario. Pertanto, il contratto rientra nella disciplina del comodato con uso determinato (art. 1809 c.c.), dove la destinazione d’uso prevale. La crisi coniugale o la separazione non modificano automaticamente il titolo di godimento dell’immobile, a meno che non vengano meno le esigenze abitative della famiglia.

In conclusione, la casa familiare concessa in comodato da un terzo (ad esempio, un genitore) può continuare a essere occupata dal coniuge assegnatario e dai figli, fintanto che persiste la destinazione dell’immobile a casa familiare. Tuttavia, il proprietario può richiederne la restituzione solo per urgenti e imprevedibili necessità o se la destinazione d’uso viene meno, come quando la famiglia smette di abitare stabilmente l’immobile. La valutazione di questi casi richiede un’analisi dettagliata delle intenzioni originarie delle parti e delle circostanze specifiche.

Il coniuge assegnatario dovrà dimostrare che il comodato è stato stipulato con la specifica destinazione d’uso a casa familiare per continuare a risiedere nell'immobile. Questo è un passaggio fondamentale nei casi in cui il proprietario (ad esempio, il genitore di uno dei coniugi) chieda la restituzione dell'immobile.

Perché è necessaria questa dimostrazione?

  • La legge distingue tra il comodato precario (art. 1810 c.c.), che permette al proprietario di richiedere la restituzione "ad nutum" (cioè in qualsiasi momento, senza necessità di giustificazione), e il comodato con destinazione d’uso specifica (art. 1809 c.c.), che lega l’utilizzo dell’immobile a uno scopo definito, come la casa familiare.

  • Nel caso di comodato con destinazione a casa familiare, il proprietario non può richiedere la restituzione se persistono le esigenze abitative del nucleo familiare, salvo in caso di urgente e imprevisto bisogno.

Onere della prova

  • Il coniuge assegnatario che si oppone alla richiesta di restituzione da parte del proprietario ha l'onere di dimostrare che:

    • Il comodato è stato stipulato con l’intenzione di garantire una stabile abitazione per la famiglia.

    • La casa era stata concessa espressamente come casa familiare, non per esigenze personali o temporanee del coniuge comodatario.

  • Questo può essere dimostrato analizzando le circostanze e l’intenzione comune delle parti al momento della concessione, come:

    • L’uso dell’immobile da parte della famiglia per lungo tempo.

    • L’assenza di limiti temporali espliciti nel contratto di comodato.

    • Dichiarazioni o comportamenti del proprietario che confermano la destinazione d’uso come casa familiare.

Cosa accade se non viene dimostrata la destinazione d’uso?

Se il coniuge assegnatario non riesce a dimostrare che il comodato aveva una specifica destinazione a casa familiare, l’immobile potrebbe essere considerato come concesso in comodato precario. In questo caso, il proprietario avrebbe diritto di richiedere la restituzione immediata "ad nutum", senza necessità di motivare la richiesta.

Conclusione

Il coniuge assegnatario deve dimostrare che il comodato è stato concesso con l’intento di garantire una stabile destinazione a casa familiare per mantenere il diritto di abitare l’immobile. Questa dimostrazione è essenziale nei casi di contestazione da parte del proprietario e richiede un’analisi delle intenzioni originarie e delle circostanze specifiche al momento della concessione.

Attenuazione o estinzione degli obblighi connessi al matrimonio

Inoltre e come già specificato in precedenza, la separazione, che sia consensuale o giudiziale, non comporta la dissoluzione del vincolo coniugale, ma piuttosto l'attenuazione o l'estinzione degli obblighi connessi al matrimonio. Questo implica restrizioni pratiche come la limitazione di contrarre nuove nozze per i coniugi separati legalmente e il mantenimento del cognome da parte della moglie. 

La separazione comporta la cessazione dell'obbligo di coabitazione e una riduzione significativa del rapporto coniugale. La separazione viene vista come un periodo di inattività per gli obblighi derivanti dal matrimonio, che presuppongono l'affetto coniugale. Oltre alla coabitazione, altri doveri, come assistenza, collaborazione e fedeltà reciproca, sono sospesi.

Data la persistenza del vincolo coniugale, esiste un consenso generale sull'obbligo per i coniugi di preservare la riservatezza, la dignità personale e di mantenere comportamenti basati su reciproca lealtà e correttezza nei residui rapporti, insieme a un minimo di solidarietà, riflettendo la situazione di "non estraneità" delle parti.

 

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